Draghi e l'apriscatole nel deserto
Da una battuta dell'Economist sul nuovo report di Draghi
La relazione predisposta da Mario Draghi per la Commissione Europea getta un sasso nello stagno sui problemi del vecchio continente e sui sacrifici necessari per superarli in termini di riforme e di investimenti aggiuntivi. In questo post provo a sottolineare alcune sfide riguardo alla dimensione politica partendo da una battuta proposta da un editoriale dell’Economist
Avanzare critiche a Draghi, quando parla dell’Europa, suona un po’ come spiegare a Steve Jobs la Apple dei sui tempi o il primo scudetto del Napoli a Maradona: una missione suicida che denota arroganza a livelli che travalicano il senso del ridicolo. Chiarisco quindi in partenza che ci sono poche persone al mondo in grado di comprendere i problemi dell’Europa con un livello di consapevolezza e lucidità paragonabili all’ex presidente della Bce.
Tuttavia, qualsiasi ipotesi di soluzione a questi problemi evidenziati include necessariamente una dimensione politica, culturale e istituzionale sulla quale tutti i cittadini dell’Unione europea dovrebbero avere il diritto di pronunciarsi e il dovere morale di approfondire.
Cosa dice il rapporto sulla competitività?
Entro il 2040, si prevede che la forza lavoro si ridurrà di quasi 2 milioni di unità all’anno. Dovremo puntare maggiormente sulla produttività per guidare la crescita. Se l’UE mantenesse il suo tasso medio di crescita della produttività dal 2015, potrebbe mantenere il PIL costante solo fino al 2050, in un momento in cui si trova ad affrontare una serie di nuovi investimenti ,che dovranno essere finanziati attraverso una crescita più elevata.
Tre aree di intervento principali
Il rapporto Draghi individua tre aree di intervento principali per rilanciare la crescita sostenibile:
colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate, considerando che le aziende europee sono specializzate in tecnologie mature, dove il potenziale di innovazione è limitato.
sicurezza e riduzione delle dipendenze, con particolare riferimento al recente stravolgimento degli equilibri geopolitici seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia
un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività, per fare in modo che gli ambiziosi obiettivi climatici dell’Unione Europea possano costituire un’opportunità
Secondo la ricerca, per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la nostra capacità di difesa, la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del PIL. Si tratta di una cifra senza precedenti: per fare un confronto, gli investimenti aggiuntivi forniti dal Piano Marshall tra il 1948-51 ammontavano a circa l’1-2% del PIL all’anno.
La frecciata dell’Economist
A questo punto si inserisce la pungente osservazione sarcastica del settimanale britannico: una celebre barzelletta vede un chimico, un fisico e un economista, naufragati su un isola deserta, con la necessità di aprire una lattina di fagioli. I primi due propongono soluzioni basate sulle proprie aree di competenza, che si rivelano inefficaci, il terzo esordisce con la frase “supponiamo di avere un apriscatole”.
Secondo il settimanale britannico, il fabbisogno evidenziato dal report di Draghi, quantificabile in circa 800 miliardi di euro all’anno, da finanziarsi con debito comune di nuova emissione, non costituisce un’ipotesi di lavoro molto più fondata rispetto all’apriscatole su un’isola deserta. Il parallelo è suggestivo, ma ingeneroso nei confronti dell’ex banchiere centrale.
La storia recente ci insegna che: la proposta di un recovery fund da 500 miliardi, avanzata da Francia e Germania nel 2020, ha aperto la strada al programma Next Generation EU che sul quinquennio 2021-26 ha mobilitato risorse per 750 miliardi che, sommati al Multiannual Financial Framework (MFF) per il periodo 2021-27 hanno totalizzato una “potenza di fuoco” da 1824 miliardi.
L’ “apriscatole” di Draghi rimane sicuramente una prospettiva sfidante, ma non del tutto irrealistica, considerando che i paesi europei hanno dato prova di riuscire a comporre le proprie divergenze di fronte a cause di forza maggiore.
Le tre questioni che a mio avviso meritano una riflessione aggiuntiva sono:
l’Europa NON è uno stato unitario e “ragionare come se lo fosse” è forse il presupposto più simile al suggerimento dell’economista della barzelletta
L’Europa NON è (ancora) un mercato unico sotto diversi punti di vista e questa considerazione è collegata alla precedente
Investire molto e nei settori giusti è condizione (forse) necessaria, ma non necessariamente sufficiente a promuovere la crescita economica
Draghi ci può spiegare con precisione chirurgica cosa non funziona nel “condominio Europa” e che cosa ci vorrebbe per rimetterlo in sesto, ma le modalità con le quali bisogna gestire l’assemblea dei condomini costituiscono un discorso a parte. Invece di pensare alla UE come a uno stato centrale che può indirizzare gli investimenti come USA e Cina, sarebbe forse più appropriato studiare un modello in cui gruppi di paesi omogenei devono definire e portare avanti una strategia di cooperazione.
L’UE non è uno stato unitario e questo fa la differenza
Se una prima divisione intuitiva potrebbe contrapporre il blocco dei paesi mediterranei con Italia, Grecia, Spagna e Portogallo a quello della Germania con gli altri paesi continentali (con qualche riflessione aggiuntiva sul posizionamento della Francia) esistono altre dimensioni altrettanto ragionevoli. Ad esempio gli stati più piccoli, per popolazione e per estensione, sono accomunati da alcuni interessi che non coincidono (talvolta addirittura contrastano) con quelli delle nazioni più grandi.
Il primo spunto che vorrei suggerire è che la strategia di rilancio dell’Europa non andrebbe impostata assumendo che questa si muova come uno stato unitario, ma piuttosto modellizzando delle strategie di cooperazione tra blocchi di paesi con interessi diversificati.
Dalla prima osservazione deriva logicamente la seconda: l’Europa non è un mercato unico. L’introduzione dell’Euro e le normative introdotte negli anni, hanno sicuramente contribuito in modo significativo alla integrazione dei diversi mercati europei, tuttavia ad oggi l’espressione “mercato unico” rimane per certi versi una narrazione teorica e un obbiettivo a cui tendere.
Sistemi giuridici e fiscali differenti contano, ai fini della competitività
Una startup che nasca in Italia o in Svezia, quando elabora il business plan dei clienti da servire o dalle regioni in cui espandersi, deve necessariamente fare i conti con sistemi giuridici e fiscali che cambiano quando si oltrepassano i confini nazionali. Per esempio, un avvocato abilitato in Spagna, non può stare in giudizio in Italia, così come un professore tedesco non può trasferirsi in una scuola pubblica italiana senza attraversare le forche caudine di una burocrazia tentacolare.
Anche in questo caso, il punto di partenza è riconoscere le criticità esistenti e tenerne conto nella definizione della strategia finalizzata al recupero della competitività e alla promozione della crescita economica nei paesi del vecchio continente.
Un insieme di mercati, ancora più integrato rispetto a quello esistente, che non abbia l’ambizione irragionevole di qualificarsi come il mercato unico, che non esiste ancora, contribuirebbe a rendere ancora più attrattivo il sistema anche per gli investitori privati
La lunga serie di “fallimenti” dell’intervento dello stato nell’economia
Last but not least, se un recipiente è bucato, tutta l’acqua di questo mondo non sarà sufficiente a riempirlo. In un celebre discorso tenuto durante la pandemia, lo stesso Draghi aveva messo in guardia nei confronti del “debito cattivo”, quello che viene “utilizzato per fini improduttivi”.
Reperire risorse per investimenti pubblici molto ingenti e identificare in modo opportuno su quali settori puntare, può non essere sufficiente ad ottenere risultati significativi, se non si riesce a riprodurre in qualche modo gli incentivi che muovono gli investitori privati.
In Europa, per cultura e orientamento politico, l’attenzione si concentra sui meriti dei contributi dello stato alla ricerca e, in particolare, sugli aneddoti nei quali fondamentali innovazioni sono state ottenute grazie a investimenti pubblici, che i privati non avrebbero portato avanti perché troppo rischiosi o troppo poco remunerativi.
La lunga serie di “fallimenti” dell’intervento dello stato nell’economia, in Italia, ma anche in Europa (ricordate Quaero?) dovrebbe indurci più di una cautela nei confronti delle potenzialità taumaturgiche della mano pubblica.
Per riassumere, la relazione Draghi ha acceso un faro su una prospettiva scomoda: per mantenere gli standard di benessere a cui siamo abituati, l’Europa dovrà eliminare gli ostacoli all’innovazione, limitare la propria dipendenza dai paesi che si qualificano come avversari, sulla base degli equilibri geopolitici più recenti e perseguire i propri obiettivi climatici, secondo logiche che non risultino ulteriormente penalizzante per il proprio sistema economico.
Al di là del rilevante impegno economico, sottolineato in modo sarcastico dall’Economist, la sfida più grande riguarda molto probabilmente la necessità di abbandonare l’arroganza culturale, che ancora induce una parte rilevante della classe dirigente a ritenere l’Europa il centro del mondo e soprattutto la miope illusione che gli stati e le aziende europee possano avere una qualche rilevanza da soli e che la cooperazione per costruire un fronte come possa essere ancora una scelta opinabile e non un’impellente necessità.
Non è pensabile che la soluzione ai problemi del vecchio continente possa venire dalla forma mentis che li ha determinati, ne consegue che è necessario un cambio di paradigma e, forse, una vera a propria rivoluzione culturale, sperando che questa ipotesi non risulti più improbabile di un apriscatole su un isola deserta.
Io #votoconipiedi è un podcast di provocazione e riflessione sulla politica italiana e non solo, che porta avanti la strana illusione che si possa fare politica anche senza votare o candidarsi, con effetti nel lungo periodo anche maggiori.